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Bitcoin Paper: non dice nulla di nuovo! | Ma c’è chi lo usa…

Quando l’onda del mercato si abbassa, è più che normale che vengano fuori certe discussioni, talvolta al limite dell’ozioso e che lasciano sempre pensare che ci sia qualcuno pronto a sfruttare qualunque cosa per attaccare Bitcoin.

Tema del contendere è un paper, in realtà neanche nuovissimo, che è stato prima pubblicato online, poi ripreso sia dal New York Times, che gli ha concesso un approfondimento di migliaia di parole piuttosto insolito, poi anche da un relativamente noto economista che vuole ridisegnare il capitalismo e possibilmente anche Bitcoin, passando ovviamente da un controllo pubblico dell’intera vicenda.

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Il paper che ha scosso… i nemici di Bitcoin

Sposeremo qui la tesi avanzata dall’ottimo Nic Carter, che si è dichiarato sorpreso dal fatto che un paper che fondamentalmente non aggiunge nulla di nuovo alla discussione su Bitcoin si sia guadagnato non solo una lunghissima articolessa su New York Times, ma anche un approfondimento da parte del fiore degli economisti dichiaratamente anti-capitalisti (quest’ultimo lo aggiungiamo noi).

Ma procediamo con ordine: ha preso a circolare da qualche ora un paper che racconta di come, agli albori di Bitcoin, il mining fosse molto concentrato, di come alcune delle identità pseudo-anonime siano in realtà relativamente facili da ricostruire e di come ci sia stata una sorta di benevolenza da parte dei primi miner per far reggere il sistema.

Nulla di nuovo paper Bitcoin
In sintesi, nulla di nuovo

Niente di nuovo, anche se non esattamente in questi termini, perché aspettarsi la partecipazione ai quattro angoli del mondo alle operazioni di mining Bitcoin, mentre il coin non era quotato praticamente da nessun mercato era pura fantascienza. Difficile poi essere d’accordo sul fatto che si sia trattata di benevolenza e non di quell’incentivo economico (portarsi a casa i Bitcoin minati) ad aver fatto reggere il sistema.

In soldoni il ragionamento che proviamo a fare è questo: i primi miner di Bitcoin, molti dei quali si conoscevano almeno virtualmente, hanno avuto un chiaro incentivo economico a far funzionare Bitcoin senza fare pasticci. Perché soltanto un sistema funzionante avrebbe potuto essere anche veicolo di crescita economica per i primi che hanno partecipato al network. Qualcosa che chiunque abbia studiato la storia di Bitcoin e abbia anche minimamente chiaro il suo funzionamento non troverà essere questa grande novità.

Cosa che però non sembrerebbe essere l’opinione di chi invece è, sotto mentite spoglie pubbliche, interessato a gettare fango su un protocollo che ad oggi è quanto di più decentralizzato la razza umana sia mai riuscita a mettere in piedi.

L’attacco arriva anche da Glen Weyl

In un lungo articolo su Coindesk, che parla del fatto di come un paper così importante [SIC] sia rimasto lontano dai riflettori, con colpe gravi da parte del mondo accademico, che dovrebbe adeguarsi alla rapidità del mondo cripto e di Bitcoin per non essere estromesso dal processo di discussione pubblica. Non è ovviamente questo però ad interessare chi segue da vicino il mondo delle criptovalute e più nello specifico di Bitcoin.

Perché quello di Glen Weyl è un attacco, neanche troppo velato, all’indipendenza di Bitcoin. Secondo Weyl il paper dimostrerebbe che non basta la tecnologia e non basta il codice per offrire ambienti anonimi e decentralizzati.

A nostro avviso una cantonata che nasconde l’intento di attaccare Bitcoin, sempre inviso a chi sogna la mano pubblica ovunque, anche in progetti privati. Mano pubblica che, neanche a dirlo, dovrebbe essere controllata dalla “popolazione”, però solo se allineata con il diktat dell’esperto.

Spiace ma… Bitcoin è nato anche per evitare questo e continuerà a prosperare ignorando anche dei pareri così autorevoli. La montagna, che montagna non era, ha partito l’ennesimo topolino.

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