La Cina avrebbe – il condizionale è d’obbligo perché Pechino è uno noto porto delle nebbie, almeno riguardo certe decisioni – fermato qualunque tipo di iniziativa legata alle stablecoin, anche a Hong Kong. La cosa è stata riportata da diversi giornali italiani come una sorta di resistenza, tanto feroce quanto arcigna, al nuovo corso di questa tecnologia negli Stati Uniti.
Stati Uniti che hanno aperto in modo completo a questa tecnologia e che la ritengono fondamentale non solo per la diffusione del dollaro in campo digitale e a livello globale, ma anche – dice ESBR, il board del rischio europeo – per trovare più compratori per i propri titoli di stato. Pechino, dopo una prima apertura anche quella esistita soltanto sui giornali, sembrerebbe essere pronta al dietrofront. Ma ci interessa davvero?
La Cina dice no alle stablecoin – e quindi?
Quindi niente. Il tema stablecoin è tra i più fraintesi tanto dalla stampa generalista quanto da quella che, almeno in via teorica, dovrebbe essere specializzata su certe tematiche. Cercheremo di ripercorrere quanto avvenuto a livello globale negli ultimi mesi, anche per capire il contesto intorno a questa notizia:
- Donald Trump vince le elezioni
- Le stablecoin si guadagnano un posto alla Casa Bianca;
- Gli USA approvano in fretta e furia il GENIUS Act, complesso di leggi sulle stablecoin USA;
- Diversi paesi, alla rinfusa, cercano di seguire le orme degli States.
L’ultimo punto non è dovuto soltanto alla contiguità politica con Washington. Tant’è che stava guardando in quella direzione anche la Cina, passando da quel luogo di sperimentazione che è Hong Kong. In diversi tra i grandi gruppi finanziari del paese stavano appunto provando a emettere stablecoin, debito tokenizzato e anche asset tradizionali in forma di token. Poco più che esperimenti, che in realtà hanno impatto zero o quasi a livello globale, anche ai piani alti della finanza.
- Perché le stablecoin?
Un po’ per non farsi trovare impreparati, un po’ per far vedere che si può fare anche a Pechino. E che se non si farà sarà per volontà politica.
Secondo quanto è stato riportato da Financial Times però, il grosso delle aziende che si erano impegnate nell’emissione di tali token ha deciso di tirare i remi in barca dopo un suggerimento da parte delle autorità di vigilanza. Qualcosa di atteso, almeno ad avviso di chi vi scrive. E ancora una volta… qualcosa che poco interesserà il mondo della finanza globale.
Il mercato cinese conta il giusto
È innegabile che la Cina stia lottando, con un discreto successo, per un posto di rilevanza all’interno dello scenario finanziario e monetario globale. Voci neanche troppo di corridoio dicono che Xi Jinping viva come un’autentica ossessione una maggiore rispettabilità dello Yuan sulle piazze internazionali – e che l’espansione monetaria sia spesso castrata proprio dalla volontà di mantenere lo Yuan rilevante e di valore.
Rimane però il fatto che le piazze finanziarie cinesi sono, in parte, ancora sotto il rigidissimo controllo delle autorità. E che in un contesto del genere, con la polizia cinese che più volte ha fatto visita a gestori di fondi e intermediari poco graditi nei comportamenti, è in realtà molto difficile immaginarsi la Cina alla guida di alcunché in questo settore.
Nelle stablecoin il ruolo sarebbe stato di gregaria, di nuovo. E se da Pechino si tirano indietro, poco conta per le sorti e progressive di questo comparto. Al massimo quello che otterremo è rinforzare la stolida convinzione di BCE che si possa fare a meno di questa tecnologia.
Perché essere tecnologicamente incompatibili con le principali piazze finanziare globali – quelle USA – potrebbe trasformarsi in un conto molto salato da pagare.
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