Se negli ultimi anni l’andamento del mercato altcoin, specialmente tra i nuovi token, è stato così deludente, è in parte colpa della valutazione così inspiegabilmente elevata con cui certi progetti vengono lanciati sul mercato. A sollevare il tema è stato Mike Dudas, co-fondatore di The Block, noto giornale e piattaforma di analisi on-chain statunitense, che in un lungo post su X ha spiegato come l’attuale modello di valutazione dei token nelle fasi early stage sia “broken”, per utilizzare un termine americano.
Il problema è che molti token viaggiano ad FDV altissime sin dal primo giorno di listing, perché venduti anticipatamente ad investitori VC che fino ad oggi hanno pagato un premium alto rispetto ai fondamentali dell’azienda. Ora però, forse, la musica sta per cambiare. In che senso? Lo spieghiamo in questo articolo.
Come viene definita la valutazione di una crypto altcoin?
Partiamo spiegando come funziona il processo che porta un altcoin ad essere lanciata con una determinata valutazione. Innanzitutto, la metrica più utilizzata per “misurare” il valore di un token è l’FDV (Fully Diluted Valuation), ovvero la capitalizzazione teorica della moneta nel caso in cui l’intera supply prevista fosse già in circolazione. Il calcolo è molto semplice: prezzo del token moltiplicato per la total supply.
Prima però di arrivare sul mercato, un token può essere venduto in anticipo attraverso round privati riservati a investitori istituzionali e venture capitalist. Parliamo di fasi in cui il team del progetto riesce a raccogliere capitali mentre la crypto non è ancora liquida e non esiste un mercato di riferimento con domanda e offerta organica.
In questi casi il prezzo del token viene definito secondo negoziazioni private: team e VC si accordano stabilendo un prezzo di ingresso che rifletta una valutazione complessiva (spesso molto ottimistica) del progetto nelle sue fasi iniziali. Così gli investitori privati ottengono un cosiddetto “warrant token” a un valore scontato rispetto a quello che sarà il listing, mentre i fondatori ottengono liquidità immediata da reinvestire nello sviluppo della piattaforma.
Sulla carta dovrebbe trattarsi di una formula win-win, e in molti casi lo è. Nel lungo periodo, però, questo meccanismo tende a generare diverse complicazioni, soprattutto per gli investitori retail e, in alcuni casi, per la sostenibilità stessa del progetto nel tempo.
High FDV low float: la piaga del mercato altcoin
Cosa succede a questo punto? Per semplificare, ipotizziamo che un VC acquisti $20 milioni in un token, per un prezzo fissato a $0,20, ma con una supply totale di 10 miliardi di unità. A conti fatti il VC si porta a casa 100 milioni di token, in genere bloccati secondo un meccanismo di vesting, portando però l’FDV totale della moneta a $2 miliardi ($0,20 X 10 miliardi).
Capita spesso di vedere operazioni di questo tipo, dove poi la supply circolante al momento del lancio è molto bassa ( solitamente inferiore al 20%), cosa che rende poi lo stesso token vittima di una pressione ribassista innata. Tecnicamente queste tokenomics vengono definite come “High FDV low float”, cioè appunto con una valutazione alta ed un flottante circolante basso.
Tutto ciò crea in pratica un forte disallineamento tra prezzo e valore reale dell’altcoin. Sulla carta, infatti, il progetto sembra valere miliardi di $, mentre in realtà il prezzo di riferimento deriva da negoziazioni private con investitori VC, il quale viene poi utilizzato come base per il listing sugli exchange (in genere sempre più alto del prezzo di ingresso del VC).

Quindi i retail si trovano sul mercato un nuovo token che, sulla carta sembra promettente, ma nella realtà dei fatti viene già implicitamente scambiato ad una valutazione eccessiva rispetto ai suoi fondamentali, con il valore che tende, per forza di cosa, a diluirsi nel tempo. In questo senso i retail finiscono per essere l’exit liquidity di VC e team.
Qualcosa potrebbe cambiare
Tornando alle parole di Mike Dudas, secondo la sua visione delle cose, il periodo dell’estrazione selvaggia a discapito dell’utente finale potrebbe essere giunto al capolinea. Ad oggi i VC non valutano infatti i nuovi token con questi premi esagerati rispetto al loro valore fondamentale, ed è in corso una sorta di stallo nelle negoziazioni con i team.
Da una parte, questi ultimi cercano ancora di giustificare valutazioni elevate facendo leva su narrative ed ipotesi ambiziose di crescita futura. Dall’altra, però, i venture capitalist appaiono molto più cauti rispetto al passato, consapevoli di esporsi in un mercato che non mostra più la stessa forza dei cicli precedenti, anche come conseguenza delle dinamiche di cui sopra.
Dunque, forse ci stiamo avvicinando ad una fase in cui le negoziazioni private avverranno a multipli più bassi, allineati più verosimilmente a ciò che accade nel mercato delle equity. Di conseguenza noi investitori,(ripetiamo ancora, forse) potremmo avere in futuro prezzi di ingresso ragionevoli dei nuovi token, e maggiore spazio per cavalcare possibili rally speculativi.
Ci sarebbe anche un’altra soluzione
In realtà, nessuno ci obbliga ad acquistare i nuovi token e tantomeno nessuno ci impone di dover per forza seguire gli investimenti dei VC. Ad oggi i team cercano con tutte le forze di ottenere finanziamenti privati perché è il modo, per loro, più semplice di monetizzare un prodotto che non genera flussi di cassa, ed ottenere capitali con cui, eventualmente, migliorarlo.
Ma per fortuna, esistono anche progetti (pochi) che non hanno bisogno di raccogliere capitali e che, pur sviluppando in tempi più modesti, riescono comunque a mettere sul piatto una piattaforma interessante, spesso anche con una valutazione più onesta. È ad esempio il caso di Hyperliquid, che senza VC ha lanciato $HYPE a $3 al listing, per poi vedersi un X10 nel giro di poche settimane, a beneficio di tutti.
Ci auguriamo di vedere sempre più team auto-finanziati, e sempre meno tokenomics predatoriali. Sta però a noi in primis la responsabilità di sapere cosa stiamo acquistando.
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