Bitcoin è stato considerato più volte – e spesso parzialmente a ragione – come una tecnologia problematica, in termini di consumo elettrico.
Chi conosce come funziona il processo di mining e di conferma delle transazioni sa bene che i calcoli che le macchine della rete devono effettuare sono lunghi, complicati e dispendiosi in termini energetici.
Preoccupazioni che, tra le altre cose, hanno colpito anche diverse autorità statali, che sono intervenute per quantomeno limitare il mining di criptovalute sul loro territorio, come d’altronde è già avvenuto nella Repubblica Popolare Cinese (e come vi abbiamo raccontato qui).
Secondo però un report pubblicato da CoinShares, afferma che circa il 74% del mining di Bitcoin è alimentato da fonti energetiche rinnovabili. Un numero decisamente importante, tenendo conto del fatto che il grosso del mining avviene e continuerà ad avere luogo proprio in Cina, dove le aree con basso costo energetico sono aree ricche di fiumi e cascate, che forniscono energia appunto rinnovabile.
Si tratta di una ottima notizia, dato appunto l’elevatissimo consumo energetico delle apparecchiature utilizzate per il mining.
Il mining, con i prezzi attuali di Bitcoin (che pur non sono altissimi – siamo a circa il 40% del valore massimo mai toccato dalla criptovaluta), continua ad essere molto profittevole per chi può operare da territori dove l’energia è disponibile a prezzi molto bassi.
Con il ritorno di Bitcoin a quota 8.000 dollari per singolo coin, sono state inoltre rimesse in produzione anche macchine non nuovissime e che erano state accantonate perché poco efficienti.
La buona notizia è che una larga parte dell’energia che consumano per reggere la rete e per convalidare le transazioni, nonché per generare nuovi Bitcoin è rinnovabile e dunque avrà un impatto minimo sulla salute del nostro pianeta, salute sempre più precaria e che sicuramente non avrebbe bisogno di un ulteriore colpo.
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