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La Cina stringe il cerchio sulle criptovalute, miners a rischio

La Cina è da sempre una delle nazioni che hanno contribuito maggiormente allo sviluppo delle criptovalute. Da qualche tempo a questa parte, però, il governo ha iniziato ad osteggiare questo mercato; se la popolazione si dimostra estremamente interessata all’utilizzo e alla commercializzazione di monete decentralizzate, per chi governa il Paese questo è un problema. La Commissione Nazionale per lo Sviluppo e le Riforme, in un report recente, ha suggerito al legislatore di inserire il mining di criptovalute tra le attività da eradicare subito dal Paese.

Molti degli exchange più famosi al mondo hanno sede nelle città-Stato cinesi per scappare alle leggi della “Mainland”, così come molti dei progetti più interessanti sono nati qui. Infatti questa nuova limitazione seguirebbe altre già in corso da tempo; al momento, infatti, in Cina è vietato commercializzare ICO e persino fare trading di crypto. Malgrado ciò, esiste un report nazionale rilasciato ogni mese che elenca la classifica delle criptovalute su cui la popolazione cinese ha investito maggiormente nei 30 giorni precedenti.

Insomma, al momento la turbolenza è evidente ed il governo cinese sta avendo qualche difficoltà a trovare una linea politica definitiva. Se dovesse arrivare il ban al mining di criptovalute, questa potrebbe emergere chiaramente tutto ad un tratto.

Perché bandire il mining

Il rapporto della Commissione Nazionale evidenzia come il mining sia un’attività che richiede molta energia elettrica, energia che alla Cina sta già mancando e di cui ha bisogno per sostenere la sua superpotenza industriale. Minare criptovalute non è considerata un’attività a valore aggiunto, utile per lo sviluppo futuro della nazione. Per lo meno non quanto lo sono le fabbriche che producono gli oggetti di tutti i giorni che vediamo importati sui nostri mercati Occidentali.

Al momento i miners cinesi sono molti, perché il costo molto ridotto dell’elettricità in questa nazione rende estremamente profittevole l’attività. Sono nate delle mining farm con enormi infrastrutture, capaci di contenere centinaia di migliaia di schede grafiche connesse alla blockchain di Bitcoin, Litecoin e altre criptovalute. Ma non sono le schede grafiche il vero problema: per lo più è l’impianto di raffreddamento che serve a mantenerle ad una temperatura controllata a richiedere il maggior dispendio elettrico.

Un dibattito acceso

La Cina non è la prima nazione al mondo ad additare i miners per il consumo di corrente elettrica. Già in altre nazioni del mondo sono state introdotte delle misure per arginare il fenomeno, aumentando i prezzi della corrente elettrica per tutti o per le sole attività coinvolte nel settore. In generale, stiamo assistendo ad un continuo gioco di guardie e ladri in cui chi mina crypto è costretto a spostarsi continuamente per trovare delle condizioni favorevoli.

Dall’altra parte, ancora una volta i regolatori rischiano di sbagliare per una mancata conoscenza delle dinamiche di una blockchain. Se è vero che alcune criptovalute richiedono molta corrente per essere minate, queste sono quelle più tecnologicamente arretrate come Bitcoin. Basandosi sul protocollo di verifica proof-of-work che richiede ai miner di competere tra loro per crittografare i blocchi per primi, queste sono effettivamente un problema ambientale per via della loro ingente necessità di corrente. Altri progetti come Ethereum, Ripple e Tron si basano su altri protocolli che hanno superato il PoW, e dovrebbe essere operata una distinzione prima di fare di tutta l’erba un fascio. Staremo a vedere quale sarà la decisione definitiva del governo cinese.

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